Franco Gollini
Opera 1^ classificata
Diario d’una strada
Ingenua prigioniera della nebbia
m’incolpo della resa al silenzio
fiacca pigrizia d’attimi mancati.
Porto il nome d’un ragazzo di ieri
bucato dal piombo accanto alla siepe
in un giorno d’ottobre senza sole.
Lingue di fuoco danzanti di follia,
e ragnatele di fumo sul paese,
stivali di cuoio a passi ritmati,
e urla di donne e bimbi in fuga
tra pecore belanti di spavento
nel mezzo di cavalli impauriti
scheletri di case e vie in ombra.
Quando cenere sollevò il vento
nell’ora greve d’un tramonto muto
tacque la vita, derisa già a morte!
Oggi, indifferenza mi calpesta
e rimango nastro di periferia
spettro di bianco nel verde dei monti.
Uomo ascolta questa voce di strada.
Fai sosta al cippo intatto dei ricordi,
eretto alto in cima alla montagna
come faro di luce ai tuoi naufragi.
Ferma la mano armata contro i figli,
le cui voci verranno dal domani
per dare alle nuove vie il mite nome
d’un fiore, d’una pianta o d’una stella.
Leonardo Zanin
Opera 2^ classificata
Canto di guerra
Ho tirato un calcio a un sasso
sbriciolavano i segni dei popoli
sotto il fuoco animale
una razza in via d’estinzione.
Calpestando una foto
un vecchio volto di lacrime
una madre, una casa, un abbraccio caldo.
Ma quanto vale davvero la pena?
Ti sembra d’imparare a vedere le cose
con la luce sempre più opaca
con il filtro delle parole.
Abbi pietà di me!
Ti insegnano a implorare
a non esistere per te stesso
ma di riflesso a un nome
a una luce che non t’appartiene.
Camminando a mezza gamba
sotto il peso della morale
coi fucili in spalla
la potremo ben sopportare;
panorami infangati di vecchie coltivazioni
le memorie lasciate a marcire nelle prigioni.
Ma cosa vale davvero la pena?
Affideremo al vento la speranza di non affondare
di vedere un altro cielo
sopra il capo dei nostri figli;
oltre questi vetri spaccati
getteremo quel che ci resta
un rametto d’olivo a un colombo viaggiatore.
Un biglietto di viaggio
è un seme che può germogliare
ma la pace sprofonda
Mediterraneo non sai ascoltare.
Maria Gabriella Meloni
Opera 3^ classificata
Precarietà
Non essere altro
che il sogno di un’ombra,
avere la consistenza impalpabile
della nebbia lattiginosa
che in un mattino d’autunno
avvolge ogni cosa,
che la luce del sole disperde.
Rimanere in balia
di una folata di vento.
Voler esorcizzare la fragilità,
tentare di sottrarsi
alla condanna della precarietà,
protendersi verso l’alto
in uno slancio disperato,
inseguendo qualcosa
che sottragga alla condanna
cui l’uomo è ancorato.
Coagulare l’attimo,
travestirlo col sembiante dell’eterno.
Illudersi di arrestare
questo flusso all’uomo destinato,
annientare la vertigine
dell’essere stato.
Cristiano Comelli
Opera 4^ classificata
L’ennesima dose
sorrideva sullo zampillare del mio sangue
da vene ormai logore e impotenti
la mia mano ormai non più mia
strinse l’immagine di fumo
di un fantasma senza forma.
Era il Dio che mi vide bambino
o ero io bambino travestito da Dio
che correvo alla stazione
di un domani che mi accarezzava
per comprare quell’esile biglietto
per salire sul treno di chi spera.
Mai mi perdonerò
di essere stato gettato da quel treno
mentre a diciott’anni
ne afferravo la maniglia
fu allora
che la mia vita cadde
su una siringa ingannevole compagna
che odorando di sarcasmo
mi rese suo abulico schiavo
annientandomi i respiri
con la più lacerante delle nenie
“il tuo mondo sono io
e non cercare nessun Dio”.
Massimiliano Floriani
Opera 5^ classificata
Questa vita che tanto pare bella
Questa vita che tanto pare bella
è l’assoluto divenire di un’opera lirica,
essa si contorce fra le frasi orecchiabili
scritte in chissà quale momento spirituale
da un dimenticato compositore,
mi accarezza lo spirito e piano
mi scivola fra i capelli.
Questa vita che pure a te appartiene,
non abbonda in comunicazioni vere
ma tutt’altro si nutre dei nostri stenti,
ci lascia liberi di imbrogliare
e di essere imbrogliati
con le aspettative di un amante non amato.
Questa vita che tanto ci fa soffrire
non è altro che un gioco di vite
spinte all’eterna finzione:
perché tanta incomprensione
sulle nostre pelli consumate?
I tuoi ed i miei giorni
dedicati al dionisiaco amore
rimarranno nel buio un continuo
spronare all’impiccagione del sentimento:
per ogni vento forestiero allora
imbandiremo tavolate di primizie.
Maddalena Colucci
Opera 6^ classificata
Solitudine di noi soli
In questa infinità di anime sole,
siamo deserti irraggiungibili.
È questo il lago fumoso, specchio di noi stessi
dove evaporano come nebbia, i segreti più nascosti e
risalgono la china degli occhi
velati
di gioiose gocce oppure gravi.
Qui è il rifugio di ognuno,
liberi si vaga in un mondo tutto nostro.
È una solitudine di noi soli!
A volte è una prigione,
a volte ancora è una musa.
Se appena entri in questo eremo sommerso,
si accende un angolo di sogno.
Tu Amore mio
nel tuo mistero
sei per me come perla preziosa e rara.
Lo scrigno s’apre e tutto riempie, tutto colora,
tutto odora:
vieni a vedere i miei occhi ora!
Pasquale Corsaro
Opera 7^ classificata
Si alzano, sul mare agitato,
pensieri aggrovigliati.
È già abbastanza
sopravvivere alle avversità,
all’intricato cespuglio di rose,
ma tu vuoi guardare più dentro
e trovi ciò naturale.
C‘è gente, come te, che pensa
e non so bene cosa cerchi,
per me il mare è solo mare,
la sabbia è sabbia,
il pensiero si ferma
dove più non si coniuga spazio e tempo,
tutto ciò mentre il sole
illumina e riscalda le cose
che nemmeno lo sanno
e il tempo scorre
perché siamo noi a misurarlo.
Giuseppe Fumagalli
Opera 8^ classificata
Cinque Terre
Il sentiero tagliato nella roccia
a precipizio sul mare
profuma di timo e maggiorana
e sembra snodarsi all’infinito,
seguendo le anse della riva.
Vecchi ulivi, contorti dagli anni
spruzzano fazzoletti di terra
strappati alla montagna con sudore,
e i limoni sono occhi
sgranati sulle onde spumeggianti.
Un frinire di cicale
dà il tempo al cammino,
greve nella salita,
verso uno sgranarsi di case
appollaiate sulla roccia a sostenersi l’un l’altra:
Vernazza, Corniglia, Manarola, Riomaggiore.
Un rosario di paesini,
ripetuto dagli uomini nei secoli
su mulattiere battute dal vento
e tormentate dalla pioggia.
Una biscia ha perso la pelle sul sentiero,
io ho rinnovato i pensieri sulle sue orme
lasciandomi dietro quelli vecchi e stanchi.
Egidio Belotti
Opera 9^ classificata
Nel mattino cieco
Pause lente – silenzi – in questa città
che dorme, e improvvisi i canti
sgretolati del cuore precipitano
pazienti – quasi essenziali – sulle persiane
accostate ferme al primo respiro,
specchio di sguardi che rimandano
alle metafore con la polvere che agita
il vento tenera e afflitta nel mattino cieco
di cuoi e ardori, solo filari di passeri precoci
a tingere i confini delle tenebre dove l’alba
scivola lenta sulla pioggia che colora i sogni
residui, e noi ignari tentiamo ancora il volo
sull’orizzonte incerto a respirare nuvole
e tu erodi ombre rare mentre il battito discreto
di quei sogni ci intrattiene ancora sulla cresta
screpolata delle cicatrici stagionali
in questo deserto che ignora anche le stagioni
sospeso su echi di memorie, e intanto – colloquiale – sale disteso questo vocìo insistente di onde
a catturare scogli e voli tranquilli di gabbiani.
Sergio Baldeschi
Opera 10^ classificata
La giusta direzione
Caro babbo… quando il tuo ricordo riaffiora negli spazi del mio pensiero,
colgo la tua immagine dentro una cornice di luce, una figura dolce e sorridente
dalle mani d’oro, ingegnoso artista dalle varie sfaccettature,
un’indissolubile figura fissata su quel quadro… ormai appeso al muro dell’eterno.
Ora che non ci sei più... sento il peso delle tue fatiche,
sovrastare l’inquieto volume della mia vita,
osservo il tuo meticoloso lavoro costruito col silenzio delle braccia,
un lavoro umile e onesto come il tuo sguardo.
Vedi babbo, io so di non essere stato il figlio perfetto che tu volevi,
nel tuo cielo c’erano per me grandi progetti, enormi attese,
fatte con la speranza di chi insegue un sogno,
di chi insegue quella direzione dove l’umano penetra nella perfezione.
Tutto ciò non è accaduto… il destino è stato più crudele,
ha tarpato le mie ali, imprigionandole dentro la gabbia della balbuzie,
una gabbia ipocrita, che non ha lasciato volare la mia parola,
non ha lasciato che il mio pensiero componesse ragionamenti…
perché forse inutili… freddati sempre sulle sillabe che s’inceppavano
nel vano tentativo di pronunciarle.
Ha liberato solamente i miei sorrisi di circostanza, fatti a denti stretti,
con le labbra che tramavano e il cuore che chiedeva pietà,
e una sofferenza intensa, subita anche oltre le apparenze.
Ti chiedo perdono se non sono riuscito a percepire il senso di questa vita,
dove tutto scivola nella clessidra della nostra esistenza
come una sabbia torrida che scricchiola gelo,
una sabbia che si sgretola nel nostro umano pensiero,
e ci rende carnefici e vittime di un destino che solo Dio conosce.
Ma adesso che il vascello della tua anima ha oltrepassato la dimensione della materia
ed è ancorato sulle derive del tempo…
adesso avrai capito che per me… è stato meglio sbocciare su un prato fatto di silenzi
piuttosto che sul pulpito di una stella, dove il clamore si squarcia nel nulla…
dove il tutto svanisce nel rauco bisbiglio della meschinità.
Caro babbo… io probabilmente non volteggerò mai
su quel cielo limpido che tu sognavi… ma il piccolo usignolo uscito dal mio sangue
fornito di nuove ali e di un canto melodioso,
ha già l’animo proteso verso l’alto, ed è pronto per spiccare il volo,
un volo d’amore, dove ogni sua direzione, sarà sempre quella giusta.